27 GENNAIO, GIORNATA DELLA MEMORIA. CONOSCIAMO LILIANA SEGRE (5 A MANARA)
La Giornata della Memoria è stato un momento di profonda riflessione sulla storia del nostro Paese, sul valore del rispetto per l’altro e per tutte le diversità. I ragazzi della 5A di Manara hanno conosciuto quel terribile periodo attraverso gli occhi e le parole di Liliana Segre.
Ne sono nati temi intensi e commoventi. Tutti gli alunni sono rimasti impressionati dalla storia e dalla forza di Liliana, che ha aperto i loro cuori e le loro menti aiutandoli a capire che ci sono stati terribili errori nel passato che bisogna conoscere affinché non siano mai più ripetuti. Perché, come dice Liliana Segre, la memoria è l’unico vaccino contro l’indifferenza.
Ecco uno dei temi scritti dai ragazzi e alcune loro riflessioni.
LA STORIA DI LILIANA SEGRE
Liliana Segre nacque a Milano nel 1930, orfana di madre fin da piccola, crebbe col papà Alberto e con i nonni paterni. La sua famiglia era di origine ebraica, per questo, a otto anni, a causa delle leggi razziali, fu espulsa dalla scuola. Visto che lei frequentava una scuola pubblica, dopo l’espulsione entrò in una privata, dove però le sue amichette iniziarono a escluderla, a evitarla, a non invitarla più alle feste. Gli Ebrei, infatti, a quei tempi erano considerati diversi e addirittura pericoli pubblici, tanto che non poterono più frequentare né una scuola pubblica né una privata.
Così gli Ebrei iniziarono a scappare dalle proprie case per cercare rifugio altrove. La legge però diceva che se un amico di persone ebree le avesse nascoste nella propria casa, sarebbe stato fucilato sul posto.
Liliana, fortunatamente, fu invitata dalla famiglia Pozzi, che l’avrebbe ospitata anche a costo della vita. In un primo momento rifiutò di andarci, perché era così tanto affezionata alla sua famiglia da non volerla lasciare. Lei infatti si prendeva ogni giorno cura di suo nonno, gravemente malato del Morbo di Parkinson, una malattia a quei tempi
non curabile. Infine però accettò e le dissero che poteva preparare una piccola valigia, con dentro le cose a cui era più affezionata: ne scelse quattro.
Restò con questa famiglia di amici per poco tempo perché poi venne trasferita in un’altra famiglia mentre suo padre cercava una sistemazione per i suoi genitori, cioè i nonni di Liliana. Una volta che li ebbe messi al sicuro, Alberto decise di scappare con la figlia in Svizzera: infatti in quel periodo chi sapeva che la situazione era grave scappava, chi pensava che non ci fosse pericolo rimaneva nella propria terra e molto probabilmente veniva portato ai campi di concentramento. Gli ottimisti morirono mentre i pessimisti si salvarono.
Così padre e figlia partirono da Milano, attraversarono le Alpi e arrivarono a destinazione: in Svizzera. Il viaggio fu molto lungo, soffrirono il freddo e la fame, ma una volta arrivati si credettero salvi. La polizia però iniziò a chiedere ad alcune persone dove fossero gli Ebrei, per ogni denuncia avrebbero consegnato a quella persona 500 Lire.
Così, mentre i nonni di Liliana venivano portati ad Auschwitz, messi nelle camere a gas dove vennero intossicati e bruciati nei forni crematori, Liliana e suo padre vennero trovati da un Tedesco che portò la ragazzina prima nel carcere di Varese, poi a quello di Como.
Il padre, ormai rimasto solo, fu disperato ma questo non durò per molto, infatti poco dopo Liliana venne spostata al carcere di San Vittore, dove finì anche suo papà. Lì il padre veniva sottoposto ogni settimana a violenti interrogatori, dove i poliziotti chiedevano dove fossero gli Ebrei e di dare loro tutti i soldi che possedevano. Liliana, vedendo tornare il padre pieno di botte e ferite, si prendeva cura di lui, sembrava diventare vecchia, era come se fosse diventata lei la sua mamma, sua zia o sua sorella.
Nel 1944 uscirono dal carcere di San Vittore per essere caricati su un camion che li portò al Binario 21. I vagoni su cui vennero buttati erano bui, infatti quello su cui erano era un treno-merci. Non si vedeva nulla, non ci si poteva sedere, si urinava in un secchio (il che dava al vagone un odore sgradevole), non si mangiava e men che meno si beveva, ma quello che aveva colpito di più Liliana non era quello bensì l’indifferenza da parte delle altre persone; se ne stava seduta per terra su un cumuletto di paglia pensando a quello che aveva visto: nessuna persona che fosse andata al Binario a dire: “Ma no, cosa fate?? Non vedete che sono persone come noi e non bestie?!” Nessuno aveva osato opporsi.
Passò una settimana a bordo di quel treno, finchè non scesero: a prima vista sembrava un posto in cui si lavorava infatti si vedeva all’ingresso una scritta in tedesco che diceva “Arbeit macht Frei”, cioè lavorare rende liberi.
Appena entrarono vennero divisi uomini e donne. Liliana non voleva separarsi dal padre, ma fu costretta, così trattenne le lacrime.
Alle donne e agli uomini venne tatuato sul braccio un numero, vennero spogliati e fatti vestire con divise leggerissime e tutte uguali, vennero rasati a zero e, per coprire la testa calva delle donne, vennero loro consegnati dei teli, infine vennero perquisiti. In questo modo venne cancellata l’identità di ogni persona, infatti, col tatuaggio sul braccio era diventati solo dei numeri.
Liliana e altre ragazze vennero portate in baracche fredde e gelide, dormivano su letti di legno e come scarpe avevano degli zoccoli. Mangiavano un piccolo panino al giorno, che veniva loro consegnato insieme a una zuppa schifosa. Liliana, che era una ragazzina tredicenne, era arrivata a pesare 32 kg!
Nelle baracche faceva talmente freddo che sul soffitto si formavano piccole stalattiti di ghiaccio, a Liliana ricordava vagamente le volte in cui mangiava un gelato, allora le succhiava, ma non troppo, per evitare che le venisse voglia di mangiare il vero cono.
Nonostante quelle pessime condizioni, tutti avevano voglia di vivere, tranne qualcuno, ma pochi, che si suicidò gettandosi sopra un filo spinato che faceva prendere una scossa mortale.
In inverno Liliana venne chiamata a lavorare in fabbrica, per sua fortuna, perché non si sarebbe sopravvissuti passando un altro inverno nelle baracche, si sarebbe morti congelati.
In fabbrica si producevano le armi, Janine, una ragazza francese che lavorava con Liliana, si tagliò due falangi delle dita. Poco dopo arrivò un medico che fece spogliare le ragazze per controllarle e decidere del loro futuro; notò la cicatrice che Liliana aveva sulla pancia, la guardò, lei era terrorizzata: l’avrebbe uccisa o no? La lasciò vivere. Il medico notò anche che Janine non aveva due falangi, decise così di ucciderla. Liliana, per paura di morire anche lei, non la guardò, non si girò e non le disse che le voleva bene. Questo non se lo perdonò mai!
Intanto i Russi e gli Americani si stavano avvicinando ai campi di concentramento, così i Tedeschi iniziarono a distruggere le armi, i documenti, le camere a gas e i forni. Radunarono le persone sopravvissute, tra cui Liliana, e fecero marciare quegli scheletri. Questa marcia verso la Germania del Nord prese il nome di “marcia della morte” perché era praticamente impossibile uscirne vivi. Fu terribile anche perché non ci poteva appoggiare l’uno all’altro e chi cadeva veniva fucilato. Da Auschwitz arrivarono in un altro campo dove i Tedeschi, che ormai avevano perso la guerra, pensarono di uccidere tutti i sopravvissuti, ma non fecero in tempo perché i Russi avevano liberato ormai tutti i prigionieri. I Nazisti gettarono le armi a terra, Liliana se ne ritrovò una ai suoi piedi: ebbe la possibilità di uccidere il suo assassino. Aveva una forte tentazione di ucciderlo, ma poi lasciò la pistola a terra, perché lei non era come i Nazisti, non era come loro, non era un’assassina, lasciò l’arma a terra, così diventò la donna di pace che è adesso.
Liliana non voleva più amare nessuno, non voleva più affezionarsi a nessuno, non voleva più provare sentimenti per le persone, lei si sentiva sola, infatti quando le chiedono quale sia il sentimento più grande che abbia provato, lei non risponde la fame, anche se non mangiavano ed è finita a pesare 32 kg, non diceva il dolore per le botte, anche se la picchiavano…lei rispondeva LA SOLITUDINE!
Credo che quella Marcia della morte si sia trasformata in marcia per la vita!
Liliana diventò invisibile per la paura di morire.
Io dico basta alle discriminazioni di genere o per il colore della pelle perché in questo mondo abbiamo bisogno di LIBERTA’!
La domanda continua di Liliana è: “Che colpa ne ho io se sono finita qua?”
Liliana non riesce più a piangere. La sua unica “colpa” è quella di essere nata.
Quando Liliana fu espulsa da scuola, nessuno fece caso al suo banco vuoto, come se per loro non fosse mai esistita. Io penso che tutto questo sia disumano!
L’unica “fortuna” di Liliana era quella di essere piccola, di aver vissuto questa esperienza da figlia, infatti pensa che per il padre sia stata molto più dura.
Per quarantacinque anni non riuscì a parlare della sua storia, ma poi, diventata nonna, ha deciso di raccontarla a noi bambini.
Io mi chiedo: “Come facevano i Nazisti a tornare a casa dalle loro famiglie come se niente fosse accaduto?”
Sono sbalordita dall’indifferenza delle persone che vedevano i camion carichi di persone e facevano finta di niente. Folle!
Quando andava a lavorare in fabbrica, i Tedeschi che la incontravano per strada le sputavano addosso e la riempivano di parolacce; gliene dissero così tante e così spesso che lei le imparò tutte a memoria. Liliana prima li ha odiati, poi ha provato pena per loro.
Liliana ripete sempre che lei e tutti i suoi compagni si trovavano ad Auschwitz solo per la colpa di essere nati. Tutte le mattine passava davanti ai resti delle persone morte, alle camere a gas e ai forni crematori. Lei e le ragazze che dormivano nella baracca con lei capirono che per non morire dovevano diventare invisibili!
Come può essere accaduta una cosa del genere? Nessuno ha il diritto di maltrattare gli altri.
Quando dovette andare dalla famiglia Pozzi, Liliana non sapeva cosa mettere in valigia e in cuor suo aveva intuito che non avrebbe messo più piede in casa sua.
Liliana, quando era sola, invecchiava, invecchiava e ancora si sentiva invecchiare.
I detenuti di San Vittore furono gli unici ad aver avuto pena per loro, da dentro il carcere gridavano loro benedizioni e lanciarono del cibo.
Per la sua amica Janine non c’era più via di scampo e fu mandata a morte. Liliana si sentì in colpa per non essersi neanche girata a dirle: “Janine, ti voglio bene!” oppure “Ti ricorderò per sempre, non lasciare che ti uccidano!”, ma lei aveva troppa paura di essere uccisa e quindi non potè darle neanche un ultimo addio. Mentre tornava in baracca, sconvolta, Liliana ripensava a Janine. Janine era bionda, con i ricci, aveva gli occhi azzurri ed era francese.
I pessimisti scappavano perché immaginavano che sarebbe finita male per loro, perciò la maggior parte andò a New York; gli ottimisti, invece, che sembravano prendere alla leggera la situazione, furono deportati e uccisi.